di GIOVANNI ALVARO
Devo confidarvi un segreto: non è stato facile per me scrivere questo articolo provando a non scadere in osservazioni banali e ovvie (e, tra l’altro, non sono neppure sicuro di esserci riuscito).
Devo confidarvi un segreto: non è stato facile per me scrivere questo articolo provando a non scadere in osservazioni banali e ovvie (e, tra l’altro, non sono neppure sicuro di esserci riuscito).
L’argomento è sicuramente uno dei più attuali, nonché uno tra i più trattati e pubblicizzati. Film, libri, saggi e quant’altro analizzano un fenomeno che ha sicuramente cambiato le nostre abitudini e il nostro modo di vivere. Esattamente, perché l’impatto che hanno avuto i Facebook, Twitter, Instagram, ecc. sulle nostre vite è sicuramente devastante. Questi strumenti hanno rivoluzionato in modo totale la nostra vita e soprattutto il nostro modo di relazionarci al pubblico.

Tuttavia, se da un lato sono utili per gli scopi succitati, dall’altro sono diventati una vera e propria “droga” per le generazioni più giovani. Che spesso ne fanno un utilizzo improprio. Il pranzo e la cena sono accompagnati dallo smartphone, sistemato rigorosamente accanto al piatto per poter digitare velocemente e non perdersi neppure un secondo della propria Home.
Con gli amici o anche da solo, in spiaggia oppure in montagna, per le vie della città o in casa, è sicuramente necessario il tag accompagnato dalla foto attinente. Triste, felice, stanco o arrabbiato non è importante se non è pubblicizzato su Facebook o su Twitter. Siamo arrivati al punto che anche le tragedie o i lutti vengono sistematicamente condivisi e propagandati su queste piattaforme.
Intere generazioni affette dalla febbre del like e dello share (condivisione). Intere generazioni che lentamente e inesorabilmente si desensibilizzano, in favore di una sempre più dilagante indifferenza verso qualsiasi cosa. Un imperversante e accanito menefreghismo che colpisce soprattutto le nuove generazioni, quelle più deboli e influenzabili e che invece dovrebbero essere protette. Menefreghismo e indifferenza causate prevalentemente dall’alto e sconcertante contenuto di violenza verbale (e non solo) cui è affetto Facebook.
È questo continuo bombardamento di immagini e parole che ci sta desensibilizzando. Sarei un ipocrita se dicessi che io stesso non sia pietosamente “legato” ai social e sarei anche superficiale se dicessi che la violenza e il cattivo gusto siano nati con Facebook. Non è così. Ma sicuramente, mentre un tempo determinate vicende erano e rimanevano circoscritte, oggi – per mezzo di tali strumenti – qualsiasi avvenimento, qualsiasi pettegolezzo, qualsiasi episodio rischia di diffondersi a macchia d’olio.
Non penso che sia una fotografia esageratamente critica della situazione attuale, penso piuttosto che spesso si tenda a minimizzare e a giustificare il tutto, non preoccupandosi delle conseguenze future. Una soluzione purtroppo non esiste, né potrà mai esistere. Non si può limitare la rete, ma si può tentare di limitarne l’utilizzo a chi più influenzabile e quindi a rischio. Sarebbe auspicabile, sebbene mi renda conto che è improbabile (per non dire utopistico) che i più piccoli siano tenuti alla larga da tali strumenti.
Perché l’unica forma di tutela che le generazioni più inermi possano avere, in effetti, sono i loro genitori.