a cura di Ludovico Lenners
Sembra sempre più evidente che la bellicosità dimostrata dal mondo arabo nell’ultimo secolo nella regione del Medio Oriente debba essere intesa come un fenomeno legato alla perenne lotta riguardante non solo il conseguimento dell’unità politica, ma anche e soprattutto, la connotazione che tale unità dovrà assumere. Ma andiamo per gradi.
Tutto ebbe inizio nei primi decenni del ‘900. Dopo gli anni della c.d. corsa agli armamenti, le potenze europee si scontrarono a partire dal 1914. Nel quadro della prima guerra mondiale, le nazioni della Triplice Intesa, Francia e Gran Bretagna, con il consenso della Russia zarista, posero le basi per il futuro assetto geo-politico del Medio Oriente (allora territorio quasi integralmente soggetto all’Impero Ottomano, alleato dei tedeschi) in caso di loro vittoria. Tali assetti trovarono la loro concretizzazione negli accordi di Sykes-Picot(1916) attraverso i quali Francesi e Britannici stabilirono le rispettive zone di influenza nella regione. Al termine del conflitto, furono pertanto tracciati i confini degli Stati che sono tutt’oggi noti. La zona A delineata dai suddetti accordi, di influenza Francese, comprendeva principalmente Siria, Libano e parte dell’odierna Turchia. La zona B, di prerogativa Britannica, includeva l’odierno Iraq, la costa orientale della penisola arabica, la Giordania e parte della Palestina. La maggior parte del territorio di quest’ultima rimaneva soggetta ad amministrazione internazionale.
L’importanza strategica dell’intera regione, in particolare dei paesi costieri mediterranei, divenne ancora più evidente durante la seconda guerra mondiale. L’accesso al Medio Oriente fu infatti tra le priorità strategiche delle potenze dell’Asse e motivo principale dei (falliti) tentativi di invasione dell’Egitto e del Caucaso da parte delle stesse, aventi il fine di presidiare e interrompere le linee di rifornimento petrolifero degli Alleati. Il Medio Oriente, del resto, si presenta tuttora come uno dei più grandi bacini petroliferi del pianeta. Il controllo della Siria e comunque dei porti situati lungo la costa mediterranea (come il celebre porto di Haifa) garantivano e garantiscono ancora oggi la più celere via di collegamento per l’importazione e l’esportazione delle risorse geologiche dall’Oriente all’Europa attraverso la navigazione del Mediterraneo. Celerità che certamente verrebbe meno se si percorresse la rotta tradizionale, ovvero il passaggio per il Golfo Persico e per il Mar Rosso, la sconvenienza della quale, in termini geopolitici e dal punto di vista europeo, è accentuata dall’imposizione di salati dazi doganali da parte dei paesi costieri (p.e. l’Egitto) nonché dal crescente evolversi del fenomeno della pirateria.
Con l’avvio della decolonizzazione, al termine della seconda guerra mondiale, e in seguito all’acquisto dell’indipendenza politica di tutti gli Stati della regione, con la Risoluzione n. 181/1947, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la nascita dello Stato di Israele, fatto che provocò ed è tuttora fonte di continui fenomeni bellici o para-bellici nella regione. Fu in questo clima di instabilità generale che prese piede una nuova ideologia di cui di rado si sente parlare in occidente: l’ideologia del Baath. Tale ideologia fu oggetto di grande seguito tra le masse popolari dei Paesi dell’area, costituite in maggioranza da popolazioni di etnia araba, e si sostanzia come un’ideologica commistione di elementi propri del socialismo associati ad un progetto di costituzione di uno Stato panarabo. I partiti Baath cominciarono così ad affermarsi soprattutto in Siria e in Iraq, svolgendo il ruolo di fondamento dei due rispettivi regimi, quello di Hafiz al-Assad (padre del vivente Bashar) e quello di Saddam Hussein. Lo scontro tra le due fazioni Baath, politicamente rivali, ebbe l’effetto di spaccare in due il mondo arabo, inasprendo, conseguentemente, l’azione autoritaria dei regimi, non solo in Siria e in Iraq, ma in tutta l’area.
È in questa situazione politica che cominciò a svilupparsi il fondamentalismo islamico politicizzato, in particolare attraverso l’organizzazione dei Fratelli Musulmani, che i regimi e le loro élite sciite dei vari paesi arabi, tra i quali anche quello di Mu’ammar Gheddafi in Libia, hanno sempre cercato di reprimere. Il fondamentalismo islamico ha ricominciato ad alzare la testa a partire dagli anni 2000, da ultimo cavalcando l’ondata di rivolte della “primavera araba”, aventi l’obiettivo di porre le basi per un processo di democratizzazione del mondo arabo. La degenerazione in chiave fondamentalista della primavera araba ha indotto il regime Siriano a forti reazioni che hanno così portato allo scatenamento dell’attuale guerra civile. Il vuoto di potere provocato dalla primavera araba si è però rivelato terreno fertile per lo sviluppo del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, comunemente noto come ISIS o ISIL, connotato non solo da una forte matrice ideologica panaraba, ma anche e soprattutto panislamica in chiave fondamentalista e violenta. Accanto alle truppe regolari del governo sciita di al-Assad (appoggiate da Mosca e da Pechino), ai peshmerga Curdi che lottano per la loro indipendenza e alla fazione ribelle a maggioranza sunnita (sostenuta dagli Stati Uniti e dalle democrazie occidentali) si è dunque affiancata una quarta forza, estremista, autonoma e auto-organizzata, rappresentata dal califfato dell’ISIS il quale avrebbe legami anche con l’organizzazione al-Nusra, affiliata ad al-Qaeda.
In definitiva possiamo dire che la situazione mediorientale, oltre che lungi dall’essere risolta, si presenta ora come aggravata in proporzioni di gran lunga maggiori rispetto al passato. Una vera e propria bomba ad orologeria, capace di far saltare non solo i già fragilissimi assetti geopolitici della regione, ma anche quelli dell’intero pianeta. Se è infatti evidente, alla luce di quanto raccontato, che l’ISIS si presenta oggi come una logica conseguenza di un conflitto culturale, politico e religioso tutto interno al mondo arabo, i recenti attentati terroristici avvenuti a Parigi e a Bruxelles, nel cuore del vecchio continente, dimostrano come il califfato sia divenuto una minaccia anche per tutte le nazioni non direttamente coinvolte nel conflitto, ma che forse sono tra i principali responsabili dell’instabilità secolare del Medio Oriente. La sostanziale inerzia, sia essa volontaria o indotta, delle nazioni occidentali (al di fuori di quelle colpite dai recenti attentati, come per esempio la Francia) sta provocando inoltre un altro inevitabile effetto di primaria importanza: la messa in dubbio degli Stati Uniti d’America come guida incontrastata del mondo occidentale. Molto si potrebbe dire, e molto si potrebbe ancora discutere sulla questione, ma un interrogativo rimane: siamo pronti, noi occidentali, ad affrontare finalmente l’ardua sfida e cooperare per assicurare la pace e lo sviluppo nel vicino Oriente o è più facile e conveniente, come spesso accade, fungere da passivi spettatori (e drammatiche vittime) di un conflitto ormai fuori controllo?