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Il Parto Anonimo e l’importanza del Segreto

a cura di Mario Alletto

 

 

In apertura di questo mio primo articolo, mi preme la precisazione che si rende necessaria ogni qualvolta si parli di argomenti legati alla sfera concreta ed emotiva di ognuno. Figurarsi quando al centro dell’argomentare sta un tema tanto delicato quanto le condizioni di necessità che costringono una donna a ricorrere all’istituto del Parto in Anonimato. Mi affretto quindi a dire che non è mia intenzione quella di sindacare su scelte dettate dalla difficoltà di crescere un figlio, quanto di accendere i riflettori sui problemi applicativi e su alcune lacune risultanti da una disciplina che, in ogni caso, mostra caratteri di indiscutibile interesse.

Il parto in anonimato è un istituto presente in vari paesi europei (mi limito a citare Italia e Francia), che consente alla donna di dare alla luce un figlio in una struttura pubblica, beneficiando quindi di condizioni di igiene e sicurezza, e chiedendo allo stesso tempo di mantenere il segreto sulla propria identità. E’ immediatamente riconoscibile, fin da questa semplice definizione, il modo in cui il legislatore abbia inteso debba operare il meccanismo del bilanciamento di interessi. L’impossibilità per il figlio di conoscere l’identità della madre (ad eccezione di particolari informazioni non identificative), è dunque imposta dall’interesse della madre a conservare il segreto. La questione che intendo affrontare è quindi se, e perché, tale secondo interesse debba considerarsi preminente rispetto al primo. Da cosa derivi, in particolare, l’importanza del segreto.

A ben vedere, è quasi istintivo comprendere la ratio alla base dell’istituto del parto in anonimato: alla gestante viene offerta la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita. “In tal modo – secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale italiana nella centralissima sentenza 425/2005 – la norma intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, dall’altro distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”.

Avendo accennato alle lacune tipiche di tale istituto, non resta che spostare la lente di ingrandimento sul tema dell’interesse della madre alla tutela del proprio anonimato. Tutela che si accompagna, in base all’articolo 28, comma 7, legge 184/1983 (legge sull’adozione), al divieto, per il figlio adottato, di accedere alle informazioni che riguardano l’identità dei suoi genitori biologici, nel caso in cui la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata. E’ questa una disposizione ripetutamente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, dapprima nella già citata sentenza n. 425/2005, e poi nella sentenza 278/2013.

Il diritto a conoscere le proprie origini biologiche, in quanto giusto corollario del diritto all’identità personale, trova tutela, nel nostro ordinamento, nell’articolo 2 della Costituzione. L’interesse dell’individuo a preservare la propria identità personale, inteso come posizione di diritto soggettivo, non costituisce pericolo, ad opinione del rimettente del 2005, per quegli interessi della madre cui si è già fatto riferimento. Ciò perché la madre, qualora interpellata, ben potrebbe confermare la decisione presa al momento del parto. Ciò nonostante, la Corte Costituzionale, giungeva, attraverso una valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda (valutazione, a parere di chi scrive, decisamente condivisibile) a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, salvando, di fatto, la disposizione in esame.

Ampliando l’angolo visuale, giunge in nostro soccorso la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 13 febbraio 2002, nel caso Odièvre. E’ a seguito di tale pronuncia che è stata innovata, per l’aspetto che qui viene in rilievo, la disciplina francese del parto in anonimato. A seguito della loi n. 2002-93, la Francia ha accolto il principio della reversibilitè del segreto: la persona in cerca dell’identità della propria madre potrà rivolgersi al Conseil National pour l’acces aux origines personelles (CNAOP), che la comunicherà qualora la madre venga rintracciata e dia il suo consenso, o sia deceduta e non si sia espressamente opposta al superamento del segreto post mortem.

Per la tesi qui sostenuta, si legga l’opinione resa dalla giudice norvegese Greve nel caso Odièvre: “It would be plainly inhumane to invoke human rights to force a woman in this situation to choose between abortion or a clandestine birth”. Sarebbe chiaramente inumano invocare i diritti umani al fine di costringere una donna a scegliere, in una tale situazione, tra l’aborto e il parto clandestino.

Alla luce di quanto successivamente affermato dalla CEDU nella celebre sentenza Godelli, in cui la Corte si auspicava una riforma della legge italiana sul parto in anonimato (un progetto di riforma era allora all’esame del Parlamento), come si ritiene debba oggi operare la tecnica del bilanciamento di interessi? La Corte Costituzionale ha risposto a questa domanda ribaltando, con la sentenza 278/2013, quanto affermato nel 2005: ha infatti rilevato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, dell’articolo 28, comma 7, della legge 184/1983, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre.

A dispetto di quanto detto dalla Corte Costituzionale nel 2013, e cioè che la disposizione in esame porterebbe ad una cristallizzazione dell’intero sistema normativo, e volendo chiudere questo mio esordio per Madama Louise con alcune mie impressioni sull’argomento, mi preme ribadire la mia propensione per l’interpretazione data nel 2005. In un periodo storico caratterizzato da un pauroso calo delle nascite, oltre che, all’opposto, da un aumento delle gravidanze indesiderate, è giusto, a seguito di un’opera di bilanciamento di interessi, inserire una tale limitazione temporale all’opportunità data dalla legge sul parto in anonimato? La domanda è retorica.

L’eventualità di essere interpellata dal giudice, in un imprecisato futuro, sulla possibilità di rinunciare all’anonimato, scoraggerebbe la madre a ricorrere ad una struttura sanitaria adeguatamente attrezzata per partorire. Ricorrendo al parto anonimo, inoltre, verrebbe sommamente tutelato il diritto alla vita del figlio, quale conseguenza della scelta della madre di non abortire. La strada intrapresa dalla Corte Costituzionale con la sentenza 278/2013, a seguito della pronuncia della CEDU nel caso Godelli, è tuttavia nel senso opposto.

La materia, infine, è facile bersaglio di infinite elucubrazioni dottrinarie, considerato soprattutto che, dal 2013 ad oggi, non vi è stato quell’intervento del legislatore auspicato dalla Corte Costituzionale. E’ evidente, quindi, che ad oggi si sia in presenza di un vero e proprio vulnus nel sistema. Tale lacuna è certamente stimolante per il dibattito, ma, considerando l’importanza degli interessi in gioco, un punto di arrivo appare, oggi come mai, indispensabile.

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