A cura di Irene Battistoni
Il 20 aprile del 1998, nell’aula bunker del Foro Italico di Roma, si aprì il processo per l’omicidio di Marta Russo. Il caso, noto anche come “delitto alla Sapienza”, riguardava una studentessa ventiduenne di giurisprudenza, la quale era stata colpita da un proiettile alla nuca, mentre passeggiava con un’amica lungo un viale dell’università romana.
L’autore materiale venne individuato nella persona di Giovanni Scattone, giovane assistente universitario, il quale secondo gli inquirenti avrebbe fatto partire il colpo dall’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del diritto, sulla cui finestra furono rinvenute tracce significative di polvere da sparo.
In tutti i gradi di giudizio, sia Scattone che il suo complice Salvatore Ferraro, anch’egli assistente, negarono non solo di aver commesso l’omicidio, ma anche di essere stati effettivamente presenti nell’aula 6 quella mattina.
Inoltre, l’arma del delitto non venne mai ritrovata e mancava altresì un preciso movente, dal momento che i due imputati non conoscevano la ragazza. Per l’accusa il movente c’era ed era proprio la sua assenza, il cosiddetto “delitto perfetto”: i due avrebbero commesso il fatto con l’intento di dimostrare lo scenario teorico, studiato nel corso di filosofia del diritto, ovvero che si può uccidere senza essere scoperti. Tra le carte sequestrate ai due assistenti vi erano, peraltro, testi dal titolo “Uccidere e lasciare morire” e “Licenza di uccidere”. Alla fine tuttavia, i giudici credettero all’ipotesi del colpo partito per sbaglio.
Il 15 dicembre del 2003, dopo più di 6 anni dall’omicidio di Marta Russo, la quinta sezione penale della Cassazione ha condannato Giovanni Scattone a 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo aggravato e Salvatore Ferraro a 2 anni e 3 mesi per favoreggiamento personale.