A cura di Greta di Cicco.
La storia di Zerocalcare nella serie Netflix intitolata “Strappare lungo i bordi” è tutta vera.
Una storia raccontata con un linguaggio diretto, da molti definito scurrile, che altro non fa che rappresentare le vite di Zero e dei suoi amici, Sarah, Secco ed Alice.
L’autore riesce a raccontare la vita quotidiana con una capacità di narrazione disarmante per la compatibilità con la realtà.
Utilizza un tipico dialetto romanesco (da molti criticato) per rendere il tutto ancora più veritiero. E parla di argomenti di fondamentale trattazione, al giorno oggi, seminando simboli e significati lungo tutti gli episodi, colti solo dagli spettatori più attenti. O semplicemente da quelli che non hanno intenzione di giudicarla come l’ennesima serie volgare, dal dialetto incomprensibile che affronta la tematica dei disagi della nostra generazione. Si tratta, piuttosto, del flusso di coscienza di Zero, di una storia personale, che si racconta senza orpelli o aggiunte superflue, fuoriuscendo dai limitanti confini dei canoni narrativi, mostrandosi identica a sé stessa, senza voltare le spalle alla verità.
Zero parla di vite che vivono in un mondo che non sanno come affrontare, sulle cui orme non riescono a rimanere. Una che spera di diventare insegnante e deve accontentarsi di servire caffè in un ufficio in cui nessuno ricorda nemmeno il suo nome. Un’altra appesa agli esiti delle giocate online ed un’ultima che invia curriculum cercando una sistemazione, un lavoro che la madre possa sfoggiare quando le viene chiesto cosa faccia suo figlio.
Il racconto di tre vite che non trovano la strada per realizzarsi ed una che forse, spegnendosi, le avrà fatte rinascere.
Zerocalcare racconta di un’esistenza normalissima, in cui il protagonista non eccelle in niente, ma crede in una cosa: che strappando lungo i bordi la storia della propria vita, questa non potrà distruggersi, potrà solo seguire il tracciato già prefissato.
Capita però che a volte per paura di non riuscire a seguire nemmeno la linea tratteggiata, si decida di non farlo più. E allora quella “cartaccia” rimane lì, ferma, intatta, non vissuta. Ma a distanza di anni resta tale. Non migliora.
E a volte sembra che i tracciati altrui siano stati perfettamente seguiti, solo perché da lontano non vediamo tutti i tentativi che li hanno precedentemente deviati.
Quell’immagine di una linea tratteggiata, simbolo di tutta la serie, ricorda in qualche modo l’album delle figurine.
Da bambini se ne comprano dei pacchetti, si spera di non avere doppioni, si staccano e si incollano al posto giusto. La figurina si scolla senza fatica, ma il più delle volte non la si riesce a far combaciare perfettamente con lo spazio destinatole.
Ecco, Zerocalcare, Sarah e Secco sono quelle figurine che anche se mancano all’appello, non fanno dispiacere nessuno. Sono i doppioni che tutti sono pronti a scambiare in cambio di figurine più “importanti”. La vera domanda è “più importanti per chi?”.
Zero, Sarah e Secco non sono riusciti ad incollare la loro immagine, l’hanno lasciata nel pacchetto, prima di attaccarla sul loro album della vita.
Alice invece ci ha provato. E quella figurina è stata stropicciata prima di essere bruciata.
È stata offesa e resa vittima da chi non aveva voglia di dedicarle il posto che meritava.
E così Alice ha deciso di lasciare quel posto vuoto per sempre. Ma nessuno avrebbe potuto sostituirla.
Zerocalcare ci fa riflettere sul fatto che a volte nella vita bisognerebbe pensare meno ed agire di più. Bisognerebbe capire che le persone sono complesse, non solo bianco o nero, successo o insuccesso.
Le persone sono linee perse e mai ritrovate.
Strade sconnesse e a volte perdute.
E spesso nella vita, ai bivi più importanti, non c’è segnaletica.
Quella linea c’è, ma facciamo fatica a seguirla. E allora preferiamo fermarci piuttosto che sbagliare. Preferiamo morire piuttosto che continuare a provare. E ci si può sentire “falliti”, ma solo per gli altri.
Si può arrivare a trent’anni senza medaglie da mostrare, solo con lividi da custodire.
Zerocalcare fa capire, però, che chi la vita l’ha vissuta, quella linea alla fine non l’ha mai davvero perduta.
Ha avuto paura di seguirla, ma l’ha sempre portata in tasca con sé.
L’ha accartocciata per renderla più vera, un po’ come si fa durante gli incontri di boxe nella vita.
E Alice ad un pugno non è riuscita a rispondere.
Ma i suoi amici lo avranno fatto per lei.
Lo sfondo del telefono di Zero recita “chi è felice è complice”. Ma complice di chi?
Forse di chi dimentica. O forse di chi ha la forza di ricordare un sorriso spento.
Zerocalcare dimostra che si può dire la verità in maniera cruda, ma divertente.
Perché si può far commuovere parlando di suicidi ma senza far perdere la voglia di sorridere e lasciare che le lacrime trovino rifugio nella piega di un sorriso, amaro e sincero.
Zero ci fa capire che si può vedere la coscienza come un amico da ascoltare e non un tiranno da silenziare.
Che la voce di chi si ama non si dimentica mai.
La vera voce di Alice, all’inizio monocorde e metallica, priva di qualunque inflessione espressiva, la si ascolta solo alla fine, quando la sua bocca non può più dedicarle suono.
Alice aveva capito che nella vita i cazzotti si prendono, ma vanno anche saputi restituire.
Che è meglio avere un volto pieno di ferite riassorbite, piuttosto che un viso da bambola.
Che la forma finale della nostra esistenza sarà quasi sempre diversa da come l’avevamo immaginata. Avrà una sagoma più frastagliata e meno regolare, i colori a volte usciranno dai bordi, per eccessiva emozione, che sia dolore o felicità. Ma la forma sarà quella che gli daremo noi, quella che tireremo fuori dalla massa informe che ci viene data in sorte. Siamo come scultori di noi stessi, dovremmo cercare di intravedere la nostra immagine e lasciare che lentamente veda la luce senza curarci di quanti grammi di pietra perderemo nel tragitto.
Siamo opere alla continua ricerca di una collocazione nel grande museo della vita, vaghiamo nel mondo cercando qualcuno o qualcosa che ci appaghi, che ci faccia sentire felici, giusti, realizzati.
Siamo solo fili d’erba, leggeri e insignificanti se presi singolarmente. Ma non per noi stessi.
E quel freddo da cui Z. si fa raggelare in viaggio, è il freddo di un futuro mai vissuto, il freddo di un cuore che si rende conto di aver perso il suo battito più bello, per paura di prendersene cura.
Z. ha paura del principe degli sgambetti, degli imprevisti che la vita può a volte farci affrontare, che sia un brutto voto a scuola, o la morte del nostro più grande amore.
E allora per paura di cadere, smettiamo semplicemente di camminare.
Ed è così che Z. si è procurato la cintura nera di come si schiva la vita, quando in realtà è proprio perché la conosce fin troppo bene che teme di non essere capace di affrontarla e si nasconde in una negazione perenne di responsabilità che gli permette di vivere, senza esistere.
Quando poi capita di riguardare il film delle proprie scelte a ritroso, si capisce tutto, spesso senza poter cambiare ormai niente … e nessuno può avere accanto una coscienza a forma di armadillo che possa consolarci!
Zero racconta il disagio di esistere, ma alla fine ci fa capire che a volte basta avere un amico che con leggerezza ci dica “s’annamo a pijà n’ gelato?” per ricordarsi che siamo solo un filo d’erba in una vastità di immenso, che siamo infinitamente leggeri sebbene amiamo sentirci indispensabili, pesanti, oppressi da quella sensazione di avere un mondo sulle spalle, quando in realtà siamo solo foglie che si godono il vento prima di giungere al suolo. E in quel volo c’è tutta una libertà da assaporare.
“Tutti i pezzi di carta sò boni per scaldarsi. E certe volte quel fuoco ti basta, a volte no.”
Con queste parole Zero termina la sua storia, un viaggio alla ricerca di sé stesso, di una definizione in cui ritrovarsi. Così l’autore chiude il sipario di quel micro-universo che ci ha raccontato, lasciando lo spettatore tra la commozione ed il sorriso, in uno stato emotivo volutamente indefinibile, che va oltre i “bordi” dell’esprimibile.