A cura di Silvia Familiari
L’arte, da sempre, nasce dalla necessità di descrivere la realtà, esponendone le criticità, con la speranza di far riflettere i propri osservatori.
Ed è proprio da questa necessità di strappare il velo di Maya che ha origine l’installazione a cura di Daniela Comani, “You are Mine”, il cui scopo è quello di affrontare il tema della narrazione del femminicidio.
L’esposizione, progettata per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, gioca sul rovesciamento dei ruoli di genere nei casi di femminicidio: vengono presentate imponenti prime pagine di giornali in cui sono le donne ad essere le carnefici e gli uomini le vittime. In questa serie di stampe, si può trovare un implicito riferimento anche all’opera Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi, in cui viene raffigurato un atto di estrema violenza compiuto da una donna ai danni di un uomo, che all’epoca, nella prima metà del 1600, fece scaturire un senso comune di scandalo e turbamento tra gli spettatori. Allo stesso modo, questa esposizione genera nel pubblico un sentimento di angoscia dovuto alla presa di coscienza della drammaticità della cronaca nera da cui soventemente per “proteggerci” ci alieniamo e proviamo a distaccare, limitandoci a liquidare il colpevole come tale, senza una riflessione e analisi sociale più ampia.
All’interno dell’opera di Comani viene ben descritta anche quella che è la sistematicità dell’atto: la violenza di genere, di cui il femminicidio è la massima espressione, colpisce le donne in maniera strutturale, insinuandosi in ogni ambito, sotto il tacito consenso della società patriarcale in cui ancora viviamo. Lo stratagemma di inversione ideato dall’artista ha l’obiettivo finale di provare a risvegliarci proprio dalla passività con cui assorbiamo questo genere di notizie di cronaca. Cosa succederebbe se realmente i titoli dei quotidiani fossero: “Picchia l’ex fidanzato e lo butta dal viadotto”, o “Lui non vuole una relazione, lei lo accoltella e poi va in ufficio” oppure ancora “Marito ucciso perché ha rifiutato un rapporto sessuale con la moglie”? E se la violenza domestica venisse attuata nella maggior parte dei casi da donne vendicative e possessive dei loro compagni? Riusciremmo a cogliere come spesso, non solo i giornali, ma anche noi tramite le nostre parole, contribuiamo al perpetuarsi di una narrazione che involontariamente supporta la violenza di genere?
A questo riguardo è stata molto importante anche la campagna portata avanti negli ultimi anni dall’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere: questa aveva come principale focus quello di sensibilizzare, in primo luogo i giornalisti, all’attenzione e alla cura nell’uso delle parole nei casi di violenza sulle donne. È inutile nascondere come siano proprio le parole a dare forma alla realtà in cui viviamo; chi di esse ne fa uso, come appunto i media, non possono non avere contezza del loro impatto. Troppo spesso continuiamo a leggere prime pagine in cui, nonostante apparentemente si riconosca la colpevolezza del carnefice, le vittime vengono implicitamente incolpate, delegittimando la loro sofferenza e deresponsabilizzando, di conseguenza, la controparte.
Nonostante ci siano stati numerosi passi avanti negli ultimi anni, ed è vero che per quelli che sono i cambiamenti socio-culturali è necessario tempo, dobbiamo risvegliarci dall’alienazione in cui, per comodità, viviamo e smantellare, in primis in noi stessi, le narrazioni tossiche che contribuiscono al perpetuarsi della violenza di genere.