A cura di Luigi Falaschetti
Negli ultimi anni l’emergenza climatica ha cambiato profondamente le aspettative della nostra società, e il concetto di sostenibilità è entrato trasversalmente nelle vite di tutti noi. Durante i secoli di sviluppo industriale, è stata data rilevanza agli studi che analizzano l’antroposfera – l’area dell’influenza umana – e il modo in cui l’uomo manipola l’ambiente circostante per il proprio benessere all’interno della società e della sua economia, eclissando quasi totalmente gli effetti che l’uomo ha sulla biosfera e sulla geosfera e alimentando così la convinzione che l’essere umano è oramai al di fuori – o al di sopra – dello ‘spazio di natura’ che lo ospita continuamente, e che gli fornisce tutte le risorse necessarie alla sopravvivenza. Il diagramma di Bretherton del Sistema Terra (ossia l’insieme di antroposfera, biosfera e geosfera) illustra visivamente come in realtà, la zona di influenza umana non sia altro che una parte di un sistema più grande, con cui essa si interfaccia continuamente e non ne costituisce una mera appendice. L’idea dietro lo schema Bretherton, per quanto fondamentale per la rivalutazione delle priorità in ambito economico e industriale, non è di certo nuova alla storia del pensiero, così come la sostenibilità.
Nell’anno 478 a.C. Serse, capo dei Persiani, fu sconfitto definitivamente dalle pòleis greche, segnando un punto di svolta per la storia della cultura occidentale e per la storia in generale, in quanto quest’ultima nasce proprio grazie alla trascrizione di tale evento nelle Historìai di Erodoto. Qui appare che non fu né la forza greca, né la debolezza persiana, bensì l’artefice dell’esito è la hỳbris: l’atteggiamento che l’uomo tracotante rivolge alla natura, cercando di imporsi su di essa storpiandola e martoriandola, destinandosi a una futura punizione divina il cui livello di crudeltà è comparabile solo alla certezza del suo accadere. Ma cosa è successo dal credere che Serse sia stato sconfitto dalla sua stessa superbia, per aver tagliato la terra a metà facendo passare le sue navi, al ritrovarci duemila anni dopo con un orologio che segna il conto alla rovescia all’apocalisse climatica? Evidentemente la cultura occidentale ha subito un cambiamento radicale, ma da dove è iniziato?
“E Dio disse: facciamo l’Uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare, e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, e su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. (Genesi 1, 26)
Questo è quanto riportato dalla Bibbia e quanto trasmesso in Occidente dall’avvento del Cristianesimo: l’essere umano come dominus del mondo. Non c’è più il timore della divinità del fiume, del bosco o del cielo che si incarna e vive nel suo stesso dominio. La mitologia greca, infatti, rappresentava e giustificava ogni possibile circostanza materiale ed emotiva che era conosciuta all’uomo, con una ‘rosa cosmologica’ di divinità e semi-divinità, in cui era rappresentato ogni fenomeno percepibile e intuibile. È sacrilego, da parte di Serse, avvinghiare il mare con un ponte di barche non solo perché quel mare l’ha voluto lì un dio, ma perché lì c’è un dio incarnato. L’essere umano, o l’antroposfera per tornare allo schema Bretherton, è parte integrante del mondo che l’accoglie e che allo stesso tempo costituisce un ordine a lui superiore e i cui limiti sono invalicabili. Il filosofo Giorgio Colli a riguardo afferma: “Il mondo sarà quindi una città formata da dèi, che non sono altro per la religione omerica che uomini infinitamente più potenti, i quali realizzano le loro individualità nel cielo o su tutta la terra, invece che nella polis”. Ne consegue che ciò che è permesso all’umanità, è creare il proprio ordine nella polis, una realtà comunitaria in cui l’equilibrio è dettato dalla moralità, ed entro i cui limiti ogni cittadino ha diritto di esprimersi politicamente, proprio come il dio ‘illimitato’ si esprime nella natura illimitata.
Eppure, anche nella Grecia classica non era assente il dibattito riguardante ciò che è giusto secondo l’uomo, e ciò che è giusto secondo la natura. Massimi esponenti di questa dicotomia sono i sofisti e le loro teorie sullo scontro tra nòmos (legge umana) e phỳsis(legge naturale, perciò divina). Mentre Protagora conclude che “l’uomo è misura di tutte le cose”, Sofocle, che pur non essendo un sofista ne è influenzato, fa iniziare la tragedia dell’Antigone proprio da quel danno creatosi dall’uso insubordinato della legge umana a quella naturale, quando una donna è condannata a morte per aver sfidato il divieto di seppellire e onorare il fratello caduto, nemico di guerra.
Nonostante le divergenze e il raggiungimento di un distacco dalla concezione religiosa del mito, per il greco i concetti di pluralità e collettività non perdono mai di sacralità, in quanto l’uno è sempre in relazione a un altro, ed è dal benessere collettivo che si raccolgono i benefici individuali. Un uso sconsiderato della tecnica a danno della natura corrisponde necessariamente a un danno sia per l’uno che per i molti. “Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che la tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi di natura.” (U. Galimberti)
Mentre il greco poteva agire nello spazio morale di sua competenza, all’interno di un mondo nato dal Chaos e abitato da dèi, nella visione giudaico-cristiana il mondo viene consegnatoall’uomo per un patto con Dio Creatore, come dimostra il passo della Bibbia sopra citato. Inoltre, espressione della volontà divina non è solo il mondo fenomenico, il Creato, ma anche la morale umana, si pensi alle Tavole della Legge. Non è un caso che questa concezione del rapporto con la natura e della giustizia abbia trovato ampio spazio nel periodo di crisi della Roma imperiale.
Generalmente la cultura latina prevedeva un contatto tra uomo e natura di carattere alternatamente lavorativo, poiché l’attività agricola era fondamentale alla loro società, e contemplativo, quando finito il lavoro era concesso l’otium e i contadini si trasformavano in poeti. Il grande successo della nuova dottrina Cristiana (elaborata al Concilio di Nicea nel 325 d.C. sotto Costantino I) è dovuto proprio alla promessa ultraterrena, che ricompensava ogni patimento in vita, e soprattutto alla possibilità di giustificare l’operato umano, in particolare il potere regio, come esplicazione del volere di Dio: un mezzo fondamentale per mantenere sotto il giogo dell’imperatore il popolo sedizioso. Proprio nel Nuovo Testamento la missione salvifica di Cristo libera l’anima dalla morte in promessa di una resurrezione e di una nuova vita: il corpo mortale e il mondo mortale sono solo il passaggio per un fine di salvezza. Il mondo e l’esperienza terrena perdono quasi ogni loro valore. L’umanità è padrona di una terra quasi totalmente privata della precedente importanza, e un suo sfruttamento non può ledere in alcun modo Dio, a meno che non si verifichi un totale stravolgimento del Suo volere, in quanto l’uomo non può comunque inorgoglirsi e ritenersi di diritto il centro dell’universo.
Questo sembra vagamente riconducibile alla hỳbris greca, ma è fondamentale tenere a mente delle differenze cruciali. Giordano Bruno aveva evidenziato, come molti teologi, che “Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore e la creatura”, perciò la natura non scaturisce direttamente da Dio, ma dalla Sua parola, al contrario dell’uomo che ne è nientemeno che il figlio. Proprio questa sottile, ma profonda distanza tra Divinità e creato lascia spazio all’imperium dell’essere umano. Il filosofo del XVII secolo Baruch Spinoza, noto per le sue tesi quanto per la sua scomunica, destò non poco scalpore nell’affermare “Deus sive Natura” (“Dio ossia Natura”), provando, quindi, a ristabilire quell’identità squisitamente greca tra divino e naturale, tanto che diversi commentatori sono stati indotti a parlare di panteismo spinoziano. Possiamo ora ribadire che mentre il mondo biblico è il frutto dalla parola di Dio in consegna all’umanità (simbolicamente riconducibile al distaccamento dell’antroposfera dal Sistema Terra), quello ellenico è già divino e magnifico nella sua intima essenza, di cui l’uomo è solo una parte ed è bene che egli lo riconosca prima che un dio glielo rammenti punendolo.
Facendo un salto storico fino al 1905, nel saggio ‘L’etica protestante e lo spirito del capitalismo’ dell’economista e sociologo tedesco Max Weber possiamo leggere che la nascita del capitalismo nella prima rivoluzione industriale abbia avuto come precondizione culturale il Calvinismo, diffusosi largamente nel nord Europa a partire dal 1500; la Chiesa calvinista, infatti, incoraggiava la laboriosità e vedeva il successo lavorativo, in particolare il profitto, come segno di grazia divina e indizio di predestinazione al Paradiso.
Se da una parte il Calvinismo incoraggiava la società allo sforzo lavorativo (preparandola, apparentemente, al capitalismo) e dall’altra il Cristianesimo anteponeva l’attività dell’uomo, figlio di Dio, alla natura e se la religione costituisce il substrato culturale della società e ne forma le predisposizioni, abbiamo forse qualche indizio per presupporre che la cultura ecclesiastica sia stata la scintilla egoistica che ha portato l’umanità a soggiogare la natura, “ridotta a spazio recintato nel mondo artificiale della città”(U. Galimberti). E nel resto del mondo? Sebbene in certi casi i culti come il Buddismo in Cina incoraggiassero già all’accumulazione di denaro, per riconoscere la responsabilità europea nei confronti del resto del mondo è sufficiente considerare l’esportazione forzosa della nostra cultura, durante i secoli di colonizzazione, di sfruttamento, nonché di stermini nel mondo intero, avvenuti tra l’altro con il pretesto dell’evangelizzazione dei pagani.
La dottrina ecclesiastica non è certo il ricettacolo di ogni impulso ambientalmente degenerativo, ma dal confronto è evidente come abbia contribuito alla trasformazionedall’obiettivo greco di incivilimento, in funzione di un ideale di armonia reciproca sia tra esseri umani che tra umani e natura, in uno prettamente egoistico di beatitudine ultraterrena. Attraverso un’analisi antropologica della religione cristiana, Feuerbach nota che tale deviazione è causata dalla scissione tra uomo e Dio, e dallo smarrirsi nell’amore per Dio ormai lontano dall’uomo. Il cristiano allontana le sue virtù da sé stesso e le attribuisce a un Dio che non riesce a trovare; il greco, come poi Spinoza (si ricordi “Dio ossia Natura”), sapeva che per trovare un dio gli sarebbe bastata una passeggiata nel bosco o interrogare la propria coscienza. Tornare a riconoscere un’essenza divina nella natura (sia propria che circostante) è sicuramente anacronistico in un’era nichilista che, principalmente dal dopoguerra in poi, vede quasi tutti i suoi valori soggetti a un processo di annientamento e ricostruzione. Anche Nietzsche, però, nella sua filosofia nichilista, ispirata comunque a certi ideali ellenici, non può far a meno di riconoscere che la natura abbia un privilegio persino sull’Oltreuomo: “Un tempo il sacrilego contro Dio era il massimo sacrilegio – dice Zarathustra – peccare contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile”.
Fortunatamente, tra le varie ristrutturazioni culturali di questa società, ci stiamo sforzando, ancora non abbastanza, di riconciliarci con l’idea che l’ambiente non è un’entità da cui poter prescindere, ma che ci comprende, e stiamo avendo la prova che il nostro pianeta possiede davvero le forze terrificanti che un tempo ci spinsero a creare gli dèi in cui ora non crediamo più. Eppure, di questi esseri e di queste forze i greci erano tanto profondamente intimoritiquanto essenzialmente innamorati, così che il loro modo di descrivere il mondo si carica di una struggente emotività poetica. L’Aurora ogni mattina arrossisce dopo la ‘scappatella’ con Orione; Oceano non fa mai riposare tra le sue braccia l’Orsa Polare perché con lei Zeus tradì Era; Narciso viene trasformato in fiore per essere morto contemplando la sua stessa bellezza; Fetonte, figlio del Sole, muore cadendo dal carro del padre cercando di impressionarlo; l’indovino Tiresia diventato cieco, ma con l’universo negli occhi; il cantore Orfeo, dilaniato dalla morte della moglie, riesce a commuove anche i sassi dell’Ade. Nasce proprio qui il sublime, da una mente assaltata dall’estasi per una tempesta di corpi funesti. Questo li separa abissalmente da noi, dalla cristianità e dal suo Dio che in confronto sembra quasi annoiato, i greci avevano dedotto dalla tragicità del mondo l’essenza della sua infinita bellezza e mai si sarebbero permessi di deformarla come era proprio invece dei barbari. Non uccidiamo di nuovo Antigone, ma lottiamo di nuovo come lei sfidando le leggi disumane di certi uomini.
“Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembra che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa”.(Sofocle, Antigone, trad. F. Ferrari)