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L’AMORE, IL RAZIONALE E L’IRRAZIONALE: TRA MURAKAMI E PLATONE

A cura di Cosimo Contursi

“Fissai il disco, senza togliere la carta e il fiocco. Dopo un po’ il brusio della gente e la musica attorno a me cominciarono a sembrarmi lontanissimi, come una marea che improvvisamente si abbassa. Lì c’eravamo solo Shimamoto e io, il resto era illusione. Era solo una scenografia di cartapesta. Di reale c’eravamo solo noi due”.(Haruki Murakami; A sud del Confine, a Ovest del Sole.) 

Pagina dopo pagina, libro dopo libro, lungo i sentieri del genio creativo di Murakami continuo ancora a imbattermi in una sigla inevitabile: la capacità della sua scrittura di permeare a un livello di te stesso mai esplorato prima, quasi come se la strada per raggiungere una tale consapevolezza fosse molto più chiara allo scrittore che al lettore. Paradosso apparentemente irrisolvibile, stante la natura comunque intima e personalissima di una simile dimensione, ma che cela in realtà una necessaria ammissione di Verità: quella della scrittura come ponte tra spazi diversi, come finestra sul mondo e dal mondo grazie alla quale poter scoprire orizzonti sempre nuovi. 

Giusto pochi giorni fa sono giunto alla fine di uno di questi “sentieri”. “A Sud del Confine, a Ovest del Sole”, questo il titolo del romanzo: un viaggio lungo la vita, adolescenziale prima e adulta poi, di un uomo di nome Hajime alla costante ricerca di un angolo di mondo da sentire proprio e di nessun altro, a dispetto delle apparenti realizzazioni nella vita personale e lavorativa; un posto sicuro in cui riconoscersi e rifugiarsi quando il mondo fuori è solo vento che soffia. L’inchiesta si rivela sin da subito in tutta la sua complessità e drammaticità, tranne che per una nota: l’incontro tra i banchi di scuola con la indecifrabile Shimamoto. I due, anime affini, si intendono all’istante e i pomeriggi interi ad ascoltare musica a casa di lei diventano per Hajime il riparo che cercava: capisce di non essere destinato alla solitudine e che il suo posto nel mondo non è altro che quello in cui si trova già lei. Ma è una consapevolezza con cui fa i conti troppo tardi, e nel frattempo la vita li ha già separati. 

Platone vedeva l’amore come l’irripetibile occasione d’incontro per due destini agli antipodi: da una parte il mondo degli umani, consigliato dai criteri della ragione; dall’altra quello degli dèi, perdutamente devoto ai labirintici deliri della follia. Visioni incapaci di incontrarsi e capirsi, se non fosse per l’intervento di Eros: un mediatore, anzi traduttore, incaricato di rivelare agli uomini il parlare folle dell’Olimpo e viceversa, lasciando che mortale e immortale si schiudano scambievolmente. Un modello, quello platonico, che dipinge la passione come moto dell’animo capace di innalzare l’individuo rispetto all’apparente e incompleta dimensione materiale, facendosi palcoscenico del passaggio da nuda incompiutezza terrena a dolce contemplazione del trascendente. È la più alta nobilitazione dell’umano, o meglio della sua parte più vera e pura: quella, appunto, annunciata proprio dal confronto tra ragione-finitezza (e non essere) e follia-infinito (ed essere). A chiudere il cerchio, il mito di Aristofane nel Simposio col racconto dell’unione primigenia di uomo e donna nel sesso androgino: due volti, quattro gambe e quattro braccia in un unico corpo, custode di una potenza impareggiabile. Persino per Zeus che, scoprendola troppo vicina al divino (e troppo lontana dall’umano), ne divise le due parti così che esse errassero per sempre alla ricerca del reciproco completamento, cercando nel ripristino dell’antica unione la riaffermazione della loro duale ma unica identità. 

È ciò che accade a noi: riconosciamo, grazie ad Amore, la Follia nell’altro perdendoci al suo interno per poterla poi rivelare arrivando così a riunirci in tutta la verità dell’originario legame duale. Ed è ciò che fa Shimamoto, tornando misteriosamente nella vita di Hajime dopo più di trent’anni esserne uscita in punta di piedi: diventa specchio di lui e per lui, introducendolo al vero se stesso consegnandogli le chiavi della sua Persona. Ma poi lei scappa, colpevole, abbandonandolo fuori da sé mentre le chiavi sono ancora al suo interno. L’abbraccio del protagonista con la sua stessa irrazionalità può così mostrarsi in tutta la sua nota tragica: immergersi nella propria follia è azzardo puro e se non rimane nessuno a scortarti fuori finisci per annegarci. Prima di rivedere Shimamoto, Hajime procedeva per mera inerzia spinto da forze a lui estranee; apparentemente arricchito e realizzato, in realtà non aveva né era niente. Proprio riscoprendo lei, e innamorandosene, le aveva dato l’unica cosa che poteva davvero donarle: se stesso. Quello vero, quello che nemmeno lui prima conosceva, ma di cui con l’abbandono non rimane che l’ombra. Un’ombra che ancora vaga alla ricerca della sua parte complementare, che continuerà a farlo per sempre urlando forte il suo nome per ricongiungersi e tornare insieme bambini. Per tornare nuovamente a casa di Shimamoto con i 45 giri di suo padre; cullati dall’innocenza di quegli anni, inconsapevoli di ciò che il destino aveva in serbo per loro. Con la vita negli occhi e il sorriso sulle labbra, mentre la musica ancora suona.

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